Italia e criptovalute: un rapporto conflittuale di difficile soluzione

L’espansione sempre più diffusa delle criptovalute ha portato il problema della loro regolamentazione agli stati nazionali. Di fatto, un paradosso, dato che una delle principali caratteristiche delle monete virtuali è quello di non essere controllato da alcun organismo centrale. Gli stessi stati sono in difficoltà nel redigere leggi ad hoc a riguardo perché la definizione di criptovaluta sfugge ad un’interpretazione univoca: è un bene, come sostengono i suoi creatori, o un asset, come è opinione di molti economisti?

Quella che potrebbe essere una semplice “problema di espressione”, nasconde, invece, molte più insidie di quante sembri. Da questo punto di vista, l’Italia, ha provato a darsi “un tono” in merito, senza, però, riuscire a risolvere completamente la questione.

Il caso Italia

Nel nostro Paese, la questione inerente alle criptovalute è regolata dalla risoluzione 72 pubblicata nel settembre 2016. Si badi bene, però, che non si tratta di alcuna forma di regolamentazione. La risoluzione, infatti, non ha valore giuridico, ma solo “di chiarimento”. Essa assimila i bitcoin e le criptovalute alle valute estere. Di fatto, però, non risolve alcun tipo di problema, anzi, forse lo complica.

In termini di tassazione, infatti, non è sempre possibile paragonare una criptovaluta ad una moneta tradizionale per due motivi. Anzitutto l’alta volatilità della criptomoneta. Il loro potere d’acquisto è troppo fluttuante. Chi avesse acquistato un bitcoin nel dicembre dello scorso anno, quando il suo valore salì alle stelle, adesso avrebbe perso più della metà del capitale investito, visto il crollo del suo valore.

Il secondo problema relativo alle criptomonete è che i suoi scambi avvengono su base volontaria. Spieghiamo meglio. Se una persona possiede 10 euro, quei soldi, in qualunque stato andrà, avranno valore per poter acquistare un prodotto o servizio. Chi ha un bitcoin, invece, deve trovare qualcun altro che accetti di essere pagato con tale moneta. Di conseguenza il suo potere d’acquisto si riduce drasticamente e può anche essere pari a zero senza un’altra persona che ne riconosca il valore in sé.

Questione speculativa

Considerare le criptovalute come capitale estero genera problemi anche per quel che riguarda la tassazione in ambito speculativo. La linea generale afferma che, possedere valute straniere non è un’operazione che genera reddito e, quindi, non è passibile di tassazione. Vi è però, un’eccezione a riguardo: se si possiede per almeno sette giorni consecutivi almeno l’equivalente di 51.000 euro, non è più considerato un normale possedimento di valute straniere, ma un’attività speculativa, a cui viene quindi applicata un’aliquota del 26%.

L’equiparazione tra moneta estera e criptovaluta farebbe scattare anche per quest’ultima la seguente tassazione, ma come definire il reale valore di quanto si possiede? In teoria ciò potrebbe avvenire solo nel momento in cui si decide di scambiare i bitcoin con una moneta «reale». In nessun altro caso, infatti, si sarebbe in grado di stabilire una valutazione del capitale di cripovalute che effettivamente si possiede.

Esiste anche un’altra questione da considerare in questo ambito: se i wallet che contengono le criptomonete sono siti stranieri, questi sono da considerarsi una sorta di capitale investito all’estero e andrebbe indicato nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, riservato a questo genere di capitale. Anche da questo punto di vista la nostra legislazione risulta carente a riguardo.

Il caso Exchange

L’Italia ha affrontato anche i casi relativi ai siti exchange, ma, anche qui, il problema delle definizione della materia rende dubbia la sua applicazione. Tutto parte dalla IV Direttiva antiriciclaggio entrata in vigore nel luglio 2017. Questa prende in considerazione il settore delle criptovalute e le inserisce nelle leggi che servono a contrastare il riciclaggio di denaro. Le criptovalute e i “prestatori di servizi” del settore, vengono assimilati ai cambiavalute, ovvero a chi cambia le valute tradizionali l’una con l’altra. Sono quindi considerati “operatori non finanziari”. Tale legge ha dato mandato per una bozza consultiva. Il decreto, di fatto,  propone l’istituzione di un registro speciale tenuto dall’Organismo degli Agenti e dei Mediatori. Quest’ultimo è un registro al cui interno vengono registrati gli “agenti in attività finanziaria e i mediatori creditizi“. Qui verrebbero immessi chiunque “sia interessato a svolgere sul territorio italiano l’attività di prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale“.

Il problema sta, però, sempre nella fase di definizione di questa figura. Essendo le criptomonete un bene da scambiarsi su base volontaria, chiunque accetti questo tipo di pagamento è assimilabile ad un operatore non finanziario, anche se nei fatti non lo è. Questo significa che un semplice commerciante o anche un privato che accetti a pagamento di un bene (come potrebbe essere ad esempio, un semplice libro) bitcoin o simili può essere incluso nella sopracitata categoria. Di fatto, a quel punto, si tratterebbe di un registro troppo ampio, nonché inaffidabile ed inefficace per “eccesso di deleghe“.

La conclusione a cui si giunge non può che essere una: senza una definizione chiara e univoca della materia in questione, ogni legge che verrà promulgata a riguardo, finirà per essere monca e, dunque, inutile.